La Corte di Cassazione, sezione lavoro, nell’ordinanza 20 giugno 2023, n. 17648, in merito all’obbligo di restituzione del salario accessorio indebitamente percepito per violazione dei vincoli finanziari imposti alla contrattazione decentrata (nella fattispecie di causa, per retribuzioni di risultato corrisposte ad un dirigente comunale), con riferimento all’art. 4, comma 1, del d.l. 16/2014 (convertito in legge 68/2014), ha evidenziato che:
– la citata norma introduce un sistema di recupero delle somme versate sulla base di una contrattazione collettiva integrativa nulla per violazione dei vincoli finanziari posti a questa e, quindi, colpita dalla sanzione prevista dagli ultimi due periodi del comma 3 dell’art. 40 del d.lgs. 165/2001, per il quale “Le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione
annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate”;
– il graduale riassorbimento delle somme negli anni successivi, a valere sulle risorse finanziarie destinate al salario accessorio, non esclude, tuttavia che, secondo la previsione codicistica (art. 2033 c.c.), l’ente possa recuperare direttamente il dovuto dal percettore;
– infatti, il precitato art. 4 contempla una disciplina speciale la quale deve essere letta in maniera restrittiva, trovando applicazione, nei casi da essa non espressamente contemplati, la regola più generale, rappresentata dal disposto dell’art. 2033 c.c.;
– la ripetizione dell’indebito si ricollega anche ai principi dettati in materia di finanza pubblica, buon andamento della pubblica amministrazione e gestione del pubblico denaro, di cui agli artt. 81, 97 e 119 Costituzione, nonché a quello di uguaglianza ex art. 3 Costituzione ed, in ambito lavorativo, a quello per il quale il lavoratore ha diritto, ai sensi dell’art. 36 Costituzione, ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro;
– una lettura diversa porterebbe ad un esito incoerente, sia perché impedirebbe alla pubblica amministrazione di riscuotere la somma indebitamente pagata da chi con certezza l’ha percepita e, dunque, ben potrebbe restituirla, il quale, così, beneficerebbe di un arricchimento definitivo, sia perché imporrebbe di recuperare detto importo “sulle risorse finanziarie a questa destinate, rispettivamente al personale dirigenziale e non dirigenziale”, “mediante il graduale riassorbimento delle stesse, con quote annuali e per un numero massimo di annualità corrispondente a quelle in cui si è verificato il superamento di tali vincoli” e, quindi, nella sostanza, sull’eventuale retribuzione futura degli altri dipendenti;
– quindi, si deve ritenere che l’art. 4, comma 1, del d.l. 16/2014 non introduca un sistema alternativo a quello disciplinato dall’art. 2033 c.c. e che, pertanto, anche nell’ipotesi da esso regolata, l’ente locale possa agire per il recupero dell’indebito nei confronti del lavoratore che abbia percepito somme erogate senza rispettare i vincoli finanziari posti alla contrattazione collettiva integrativa;
– vale a dire che la norma prevede un meccanismo obbligatorio di riassorbimento delle risorse illegittimamente utilizzate per mezzo della contrattazione integrativa che opera all’interno della stessa pubblica amministrazione, nel senso che ne limita l’autonomia nella gestione delle disponibilità future e si aggiunge al rimedio generale dell’art. 2033 c.c..
In conclusione, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto:
“L’art. 4, comma 1, del d.l. n. 16 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 68 del 2014, non deroga all’art. 2033 c.c., con la conseguenza che la P.A. può, nelle ipotesi previste dal citato art. 4, comma 1, recuperare, ai sensi del medesimo art. 2033 c.c., le somme illegittimamente versate direttamente dal dipendente che le abbia indebitamente percepite”.