I cammellini della memoria

Una decina di anni fa avevo sentito questo racconto alla radio. Sono andato a recuperarlo. Con internet è stato facile. Due o tre parole in google e si trova di tutto.

“I cammellini della memoria” dal libro “Altrove è l’unico posto possibile” di Filippo Marinez, Eleonora Editore – Oristano 2000.

Il console era ormai vecchio.

Quella notte, come ogni notte, stava facendo la doccia prima di andare a dormire. Mentre s’insaponava ricordava sua moglie Elisabetta: la rivedeva sorridente mentre lo prendeva in giro appoggiata al frigorifero; poi rivide suo figlio a cinque anni, una domenica mattina, con le sue ultime scarpe nuove; poi suo fratello Antonello, serio e immobile, in bianco e nero, proprio come nella foto che portava sempre con sé nel portafoglio.

Quest’ultimo pensiero fu interrotto da qualcosa che al console sembrò il grido di qualcuno che precipita. Un grido quasi impercettibile, leggero come un sussurro. Il suo sguardo scattò sfiorando la tenda a fiori della doccia e scivolò giù, sino ai piedi: notò il solito vecchio callo, poi seguì l’acqua mista a schiuma che scorreva verso il mulinello; fu lì, fu nel vortice di acqua e di schiuma, che gli parve di scorgere un cammellino piccolissimo che si dibatteva ancora per un attimo prima di sparire nel buco dello scarico. Il console si sciacquò bene, si asciugò, indossò il pigiama, le pantofole e filò verso il letto.

Non poteva essere stato che uno scherzo della stanchezza. Entrò nel letto che già pensava ad altro. Lesse quasi due pagine di un romanzo noioso e fu colto dal sonno senza avere il tempo di riporre il libro sul comodino, né di spegnere l’abat-jour.

Fece dei brutti sogni.

Verso la metà della notte ebbe un attimo di dormiveglia. Non apri gli occhi ma si accorse ugualmente di non aver spentola luce. Stavaconcentrandosi per trovare la forza di ordinare alla sua mano insonnolita di spegnere, quando, all’improvviso, si rese conto che intorno a lui c’era un’indefinibile animazione.

Lentamente, trattenendo il respiro, apri gli occhi; ma li richiuse quasi subito.

Con un movimento leggerissimo si morse a sangue l’interno della guancia: era sveglio.

Questa volta socchiuse impercettibilmente solo una palpebra: i cammellini continuavano ad andare e venire sulla coperta a quadri, sul lenzuolo, sul cuscino; continuavano a entrare e uscire dalle sue orecchie con disinvoltura. Anche se aveva le ciglia quasi chiuse riuscì lo stesso a notare che le bestiole, ogni volta, uscivano dalla sua testa con un pacchetto tra i denti.

Cercò di ripetersi che era stanco, ma ormai non poteva più crederci: i cammellini c’erano veramente. Ed erano una moltitudine. Stavano attraversando le sue orecchie e portavano chissà dove pacchetti rubati, chissà come, nella sua testa.

Dei predoncini sfacciati lo stavano depredando nel suo letto. Il console ebbe un moto d’ira ma riuscì a controllarsi. Un ronzio, come di mosca, lo informò che due di loro si erano fermati proprio all’ingresso di un orecchio e stavano conversando.

Concentrò l’attenzione sul ronzio… li capiva; distingueva perfettamente ogni parola: parlavano del cammellino Markoskintu precipitato nello scarico della doccia. Erano molto contrariati.

Il console cercava di respirare piano, mantenendo sempre lo stesso ritmo.

Un cammellino chiese all’altro cosa avesse nel suo pacchetto e questi gli rispose che aveva un bel ricordo; disse che stava portando via l’immagine di Filippo con le sue ultime scarpe nuove.

Il console ebbe un brivido, cercò nella memoria l’immagine di suo figlio Filippo con le sue ultime scarpe nuove e nonla trovò. Avevala sensazione che quell’immagine fosse stata sua per tanto tempo ma, per quanti sforzi facesse, non riusciva a trovarla.

– Adesso andiamo via – sussurrò un cammellino, e aggiunse: – tanto non c’è fretta; abbiamo ancora due anni sette mesi e quattro giorni. –

Si allontanarono: uno salì su per il cuscino insieme a molti altri, l’altro, invece, scese lungo un braccio immobile del console; quando fu sulla mano questa scattò come una trappola e lo imprigionò.

Ci fu un fuggi-fuggi generale.

I cammellini erano travolti dal panico: quelli che si trovavano nei paraggi delle orecchie vi si precipitarono dentro, sparendo nella testa; gli altri si dispersero velocissimi alla periferia del letto.

In un attimo nella stanza tutto tornò apparentemente calmo.

– Cosa accadrà tra due anni sette mesi e quattro giorni?

La voce del console era secca, come di chi non ha più saliva. Il cammellino prigioniero fra le dita era confuso, ma seppe comportarsi in modo ineccepibile. Subito si scusò anche a nome di tutti i suoi colleghi per essersi lasciato sorprendere; poi disse che era davvero dispiaciuto, che incidenti come questo non erano capitati più di quattromila volte in tutta la storia dell’umanità, e avrebbe sicuramente continuato a tergiversare se il console, con decisione, non avesse ripetuto la domanda.

Il piccolo prigioniero, questa volta, fu preciso ed essenziale: – Fra due anni sette mesi e quattro giorni, esattamente alle ore ventuno e trentasei, tu morirai. –

Il console non batté ciglio, ma il cammellino dovette ritenere ugualmente di essere stato un po’ brutale. Quando, dopo una breve pausa, riprese a parlare, il suo atteggiamento era quasi affettuoso: – Io e i miei colleghi – disse – siamo i cammellini della memoria e portiamo via i ricordi a chi sta per morire. -Parlava con un lieve accento straniero – Purtroppo non sempre riusciamo a fare per tempo questa operazione di trasloco. Certe persone, a volte giovanissime, muoiono improvvisamente; per certe altre, anche se anziane, ci viene comunicata troppo tardi la data del decesso; alcuni addirittura si uccidono di loro iniziativa, e un suicida, come saprai, muore con tutti i suoi ricordi. Tu sei stato fortunato, per te siamo stati avvertiti in tempo: abbiamo iniziato il trasloco già da venti giorni, lentamente. Tra due anni sette mesi e quattro giorni, alle ventuno e trentasei precise tu morirai con pochi ricordi indispensabili e secondari. –

La voce del console questa volta era solo stanca: – Voglio morire adesso, portate via i ricordi e fatemi morire subito. – disse, e aggiunse – Per favore. –

Il cammellino ci pensò un po’ su poi decise che lo avrebbe accontentato. Era il meno che potesse fare: – Ma ti devo informare che l’infarto per il quale saresti dovuto morire fra due anni sette mesi e quattro giorni non può, per regolamento, essere anticipato. Dunque morirai di morte pura. Accadrà domani notte, in questo stesso letto. La morte ti ucciderà senza travestirsi da malattia, né da incidente, né da nient’altro. Non fornirà spiegazioni tecniche per alcuno: sarà morte, e basta. –

Il console abbassò il pugno sul cuscino e lo aprì: il cammellino si sgranchì bene le gambe e le gobbe, poi, trotterellando, rientrò nell’orecchio. Ma si trattenne poco. Un attimo dopo, infatti, stava già galoppando verso i margini della coperta e salutava col braccio.

Il console rivide il figlio con le sue ultime scarpe nuove, poi passò la notte a ricordare.

Il mattino seguente si alzò molto presto e, come sempre, scese a piedi le scale; aveva sempre evitato gli ascensori. Giunto sul marciapiede attese nell’aria fresca che passasse un camion interminabile; poi attraversòla strada. Sarebbestata una giornata speciale.

Quando salì sull’autobus numero dodici era già buio. Attese la sua fermata guardando fuori dal finestrino.

Giunto a casa si spogliò, si fece la doccia, si lavò i denti, indossò il pigiama e si mise a letto.

Inaspettatamente si addormentò quasi subito.

I cammellini non si fecero attendere: alcuni uscirono dalle sue orecchie, altri, moltissimi, arrivarono da chissà dove.

Si portarono viala moglie Elisabettamentre, sorridente lo prendeva in giro appoggiata al frigorifero; suo fratello Antonello serio e immobile in bianco e nero come nella foto che portava sempre con sé nel portafoglio; suo figlio a cinque anni, quella domenica mattina, con le sue ultime scarpe nuove. Poi un altro ricordo, e un altro, e un altro ancora. In meno di un’ora si portarono via tutti i ricordi.

Un ultimo cammellino si portò via il ricordo dei cammellini.

Nella stanza, terminato quel brulicante viavai, tutto era tranquillo: si sentiva soltanto il respiro profondo del console.

Dopo un po’, nell’orizzonte limitato della coperta a quadri, apparve un dromedarietto grigioperla.

In breve superò la coperta e si distese in un galoppo sfrenato sul bordo del lenzuolo, scalò il cuscino e scese sulla spalla del vecchio. Quando infine, districandosi tra le pieghe del pigiama, fu sul petto, si fermò, chinò il capo e morsicò in profondità, verso il cuore, coi suoi denti di ghiaccio.

A quel punto per il console fu solamente la fine di un sonno senza sogni.

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