Ogni tanto capita di vivere dentro un film. Si può subito obiettare che tutta la nostra vita è un racconto per immagini e che quindi l’idea di vivere in un film è banale. Io ogni tanto lo faccio, perché mi fa star bene: una seduta terapeutica, insomma. L’ultima volta, ho fatto così.
Con un po’ di anticipo arrivo alla stazione Termini di Roma. Faccio qualche giro guardandomi attorno, pensando al corso da poco terminato, al tramonto in piazza della Repubblica e al fatto che per oggi non entrerò come sempre nella libreria perché ho appena fatto un ordine su internet. Non ho voglia di un gelato e neppure di stare fermo su una panchina (che tanto a Termini non c’è). Con un gesto improvviso e non programmato mi metto le cuffie e faccio partire il lettore del telefono. Arrivano le note di Let’s hurt tonight degli One Republic ed improvvisamente si abbassano le luci in sala e mi trovo in un cortometraggio. Tutto cambia attorno a me. Il contrasto visivo si accende, i volti delle persone acquistano una luce diversa, i miei occhi si riempiono. Perfetti sconosciuti diventano parte di un’unica grande sceneggiatura e capisco tutto, vedo tutto, mi sento l’attore non protagonista di un film inaspettato. Con un po’ di presunzione, mi sembra quasi di percepire la vita nascosta di quell’uomo d’affari, i dubbi esistenziali di quell’adolescente o i malumori del barbone che si sta preparando la cuccetta per notte. Mi accorgo di non stare più camminando, ma, probabilmente, sfilando con mosse rallentate catturate da una cinepresa.
Poi arrivo al binario. Salgo in carrozza. The end.