L’esperimento

480 metri. Il giro completo del mio quartiere rimanendo rigorosamente a meno di 200 metri da casa. L’ho conosciuto per bene nella Fase 1 e neppure da subito, gradualmente, lentamente, con un po’ di imbarazzo. Poi ci siamo capiti: l’esatta posizione di un tombino, la lotta di un fiore per uscire dall’asfalto, il numero di inventario attribuito ad ogni lampione. Ogni mattina, l’unico brivido, l’emozione più forte: scegliere la direzione, tra senso orario o senso antiorario. E così, come un zombie con bandana/protezione/mascherina che appannava costantemente gli occhiali e di conseguenza la vista, le mie gambe prendevano ogni giorno vita, facendo girare sangue nel corpo e pulsazioni nella testa. Un criceto, insomma. Ogni tanto, non a caso, alzavo la testa per cercare lo scienziato pazzo in camice bianco che mi teneva sotto controllo. Incidentalmente, esaminando la traccia del GPS, ho pure scoperto di stare disegnando con i miei passi un’enorme supposta. Per chi ci crede, il disegno, appunto, del destino.

Diversa la Fase 2. Ora ci si può allontanare dalla gabbia. E mi è piaciuto tornare ad ampliare gli orizzonti anche se, ancora una volta, gradualmente. A cerchi concentrici ripercorro strade e stradine che non vedevo da due mesi. Sono cambiate. C’è più verde, c’è più silenzio, c’è più luce. Vedo un sano disordine di conquista di spazi da parte della natura perché nessuno – un calpestio, una ruota di auto, un decespugliatore – ricaccia indietro la normale evoluzione delle cose. Si potrebbe dire che è tutto un po’ più selvaggio, ma gradevole. Fa strano, ora che ogni uscita fa percorrere chilometri, pensare di essere sopravvissuti a un mondo fatto di 200 metri. Devo dire che la compressione dell’anima nel giro di ruota del criceto ha lanciato l’esplosione delle emozioni ad ogni passo in più. E visto che ora chiamo per nome ogni tombino e ogni lampione, non appena metto i piedi fuori di casa è tutto un salutarci, un tripudio e una festa.

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