“Se mi avessero chiesto da sano cosa avrei fatto in caso di malattia, avrei risposto che mi sarei licenziato per girare il mondo e vivere più intensamente gli ultimi anni.
Poi quando ci sei dentro la percezione cambia e vuoi solo vivere bene con chi ami, nella quotidianità. Perché sai che ti mancherà la quotidianità, la normalità. Non mi mancherà l’Australia o i Caraibi in barca a vela o il monte rosa. Mi mancherà giocare a calcio con Gabry, o guardare con lui i vecchi film di guerra o decidere con la Francesca che scuola fargli fare o dove andare in vacanza. Robe normali, scontate”.
Ho cinquant’anni e ieri è morto il mio amico.
Molti dicono che è mancato all’affetto dei suoi cari, altri che è ritornato alla casa del padre. Per qualcuno si è spento e per altri se n’è andato o ci ha lasciato. In verità, è morto. Negli ultimi anni, con lui, parlavo molto di questi strani modi di chiamare la morte, come se servissero a renderla più lieve e dolce. E ci facevamo sopra una bella risata. Si nasce e si vive fino a quando non giunge la morte a toglierti l’ultimo respiro.
Ecco, appunto, il respiro. Silvio ha scoperto un tumore ai polmoni più di sette anni fa e ha lottato fino a ieri per sconfiggerlo. La cosa più impressionante, oltre alla forza del guerriero, è stato il suo desiderio di vivere questi anni normalmente. Gli album di fotografie vicino alla sua bara ne sono la testimonianza.
E adesso cosa facciamo?
Mi risponde lui: andiamo a camminare.