A poche ore dal rientro del viaggio in Marocco mi sto accorgendo che la cosa che più di tutte mi sta mancando sono gli spazi aperti. Ho dentro di me i colori forti, le giornate lunghe, la luce accecante, il caldo delle ore centrali. Non riesco a dimenticare i sorrisi della gente, le strette di mano, le invocazioni continue ad Allah. Sento i miei piedi camminare ancora tra la sabbia del deserto, sulle rocce rosse delle valli del sud o sulla neve delle montagne. Mi vedo gironzolare tra i vicoli di Fès, nella medina blu di Chefchauen o nei mercati di Marrakech.
Più di tutto, però, mi manca il “wide-open”, che poi corrisponde a quelle fotografie o film girati in sedici noni, ovvero con il lato lungo orizzontale. Abituato a girare per l’Italia sempre caotica e con le aree verdi incastrate tra strade e autostrade, mi sono accorto di quanto il paesaggio libero mi mancasse nell’anima, nello sguardo e nello spirito. Potersi guardare attorno senza vedere il segno dell’uomo dato da una casa, da un cavo dell’elettricità o da una strada. Tutto aperto, libero, con l’orizzonte là in fondo che quasi si trasforma in acqua.
Il fatto è che proprio non me lo aspettavo. Non in Marocco, insomma. E appena ho ritrovato gli spazi aperti ho capito come io stessi in un sospiro continuo, di come mi mancasse il fiato che è sceso solo percorrendo di nuovo questi paesaggi.