All’improvviso ricevo un messaggio in un nuovo gruppo di whatsapp: è stata organizzata la cena di classe dei nati nel 1970. Tranne pochissimi casi, i numeri non memorizzati sono per me una novità e cerco di capire a chi si riferiscono sbirciando sulla foto del profilo. Do conferma. L’ultima volta era stata 14 anni fa. Una vita, a ben vedere.
Ci incontriamo e ci abbracciamo. Come amici di sempre. Siamo circa la metà degli invitati. Classi numerose, una volta.
Succede subito una cosa: non ci bastiamo. Vogliamo sapere anche di quelli che non ci sono. Dove sono? Cosa fanno? Come stanno?
C’è quel filo sottile che ci lega: le scuole elementari e poi le medie, hanno lasciato il segno. Con i maschi, poi, c’è anche il calcio del paese, quello che ci ha portato a giocare insieme fino all’Under18, senza pretese di risultato, ma solo con tanta e tanta voglia di stare insieme. E ovviamente, il ricordo della visita militare, che per noi segnava il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
In un attimo parliamo di quello che è successo nel frattempo. Ci guardiamo le rughe e ci chiediamo a vicenda perché sono saltate fuori, quali passi della vita le hanno portate, smussate, scolpite.
Quanti percorsi diversi! Quanti lavori diversi! Quante storie personali diverse! Ne parliamo e ci scherziamo sopra. Qualcuno mi chiede anche perché sono ancora qua. E dove dovrei andare?
Ci raccontiamo, convinti di essere nati in un momento storico particolare. Ci siamo definiti quelli “con un piede di là e uno di qua”. Quelli che hanno visto un po’ “com’era prima” e che combattono ogni giorno per cercare di farlo capire ai nostri figli, che abbiamo, invece, fatto crescere senza troppi sacrifici in un mondo che sembra regalare tutto.
Noi degli anni 70, della musica più bella di sempre, dei giochi in strada, di quella sensazione di bellezza nonostante le difficoltà economiche, di quando la semplicità era tutto. Noi.